lunedì 27 agosto 2012

Pianeti perduti


La notizia è stata diramata per la prima volta qualche mese fa, quando un team di studiosi americano appura l'esistenza di una dozzina di pianeti che vagabondano nello spazio senza meta. Non ruotano intorno ad alcuna stella e non fanno quindi parte di nessun sistema stellare: sono degli autentici corpi nomadi. Oggi, dunque, si torna sull'argomento con un approfondimento svolto dagli scienziati della Stanford University che arrivano ad avanzare un'ipotesi sensazionalistica: potrebbero esserci 100mila volte più “pianeti vagabondi” nella Via Lattea che stelle. È un scoperta che potrebbe rivoluzionare le consuete teorie riguardo la formazione dei sistemi stellari e la presenza e l'abbondanza di vita nell'universo. Stando, infatti, alle prime dichiarazioni rilasciate dagli studiosi USA su questi corpi abbandonati a se stessi potrebbero essere presenti tracce di vita. «Se questi pianeti nomadi sono grandi abbastanza per avere una spessa atmosfera, avrebbero potuto intrappolare abbastanza calore per permettere la vita batterica di esistere», rivela Louis Strigari, a capo della ricerca, su un documento presentato alle Monthly Notices della Royal Astronomical Society. È l'idea accarezzata anche da Dorian Abbot ed Eric Switzer dell'University of Chicago, secondo i quali esisterebbero pianeti nomadi, in grado di ospitare per miliardi di anni ecosistemi abitabili. Stimano che, se la quantità di acqua superficiale è paragonabile a quella terreste, un corpo di 3,5 masse terrestri potrebbe accogliere un oceano al di sotto di uno spesso strato di ghiaccio; mentre la massa planetaria richiesta scenderebbe a 0,3 masse terrestri, nel caso in cui la quantità di acqua fosse dieci volte maggiore. Questo tipo di pianeta non va però confuso con i pianeti extrasolari, di cui ormai si parla con continuità da metà anni Novanta: si è arrivati a classificarne più di settecento e per quanto misteriosi e interessanti possano essere, sono corpi assimilabili a quelli terrestri, ruotanti intorno a una stella che li trattiene a sé tramite la forza gravitazionale. In questo caso abbiamo a che fare con realtà cosmiche che per motivi diversi hanno perso la loro stella madre, iniziando un viaggio il cui percorso è impossibile da prevedere (un po' come sta accadendo alle sonde Voyager che hanno da poco superato i confini del Sistema Solare e nessuno sa dove arriveranno). «Ma sono pianeti “vivi”», dice Alessandro Marchini, dell'Osservatorio Astronomico del'Università di Siena, «che continuano a ruotare su se stessi come facevano in tempi remoti, rivoluzionando intorno alla stella di origine». La rotazione, infatti, non dipende dalla rivoluzione, ma da processi legati all'attività tettonica e al decadimento radioattivo. Sicché un pianeta abbandonato a sé stesso può continuare a produrre calore anche se intorno a sé la temperatura è mostruosamente bassa. «Si può dunque affermare che questi pianti continuino a vorticare su se stessi per inerzia», continua Marchini, «in attesa di un nuovo equilibrio che potrebbero trovare venendo 'catturati' da un nuovo sistema stellare». Perché, di fatto, il destino di simili corpi celesti è proprio quello di finire “arpionati” da un nuovo sistema gravitazionale, in grado di rifornirgli un'orbita intorno alla quale girare, come hanno sempre fatto. Un destino che qualche appassionato di astronomia ha fantasiosamente assimilato all'eccentricità di Plutone, declassato a pianeta nano nel 2006, con un piano dell'equatore che è quasi ad angolo retto sul piano dell'orbita; è inoltre più piccolo della Luna e caratterizzato da temperature rigidissime, fra i -228 e i -238°C, con un raggio di appena 1100 chilometri. Ma in questo caso il riferimento non è a un antico pianeta nomade catturato dal sistema solare, bensì a un ancestrale satellite che si è staccato miliardi di anni fa dall'orbita di Nettuno per raggiungere la posizione attuale, costituendo un mondo a sé, con la compartecipazione di Caronte ed altri due corpi simili scoperti pochi anni fa. Anche Hagai Perets del centro Harvard-Smithsonian per l'Astrofisica del Massachusetts, e Thijs Kouwenhoven dell'Università di Pechino, intervengono sul dilemma dei pianeti nomadi simulando al computer quel che succede in un ammasso stellare ricco di corpi vaganti. Secondo gli astronomi il 3-6% delle stelle cattura almeno un pianeta vagabondo nel corso della sua storia astronomica, posizionandolo in un'orbita eccezionalmente distante dall'astro principale; riferiscono poi di oggetti che ruotano in senso orario e che in passato anche il Sole avrebbe potuto catturare: «Si tratterebbe di un mondo dall'orbita molto allungata, ben al di là di Plutone, così da non perturbare con la sua presenza il percorso degli altri pianeti già noti», dice Perets. Ma come sono nati questi pianeti vagabondi? «Non è facile dirlo», spiega Marchini, «tenuto conto del fatto che siamo ancora nel campo delle ipotesi, e non esistono prove concrete della loro esistenza. Si può, in ogni caso, desumere che possano essere il risultato di un processo legato alla morte di una nana bruna, una stella che ha perso progressivamente massa fino a perdere la capacità di trattenere a sé altri corpi celesti». Le alternative concernono l'eventualità che simili pianeti siano figli del calderone derivante dalla formazione di una stella che, però, non sarebbe stata in grado di generare un sistema gravitazionale sufficientemente potente; oppure potrebbero essere il risultato di un'espulsione avvenuta per motivi che non si possono immaginare all'interno di un sistema stellare. Pianeti di questo tipo potrebbero, in ogni caso, essere 50mila volte più comuni di quanto previsto fino a oggi. E le loro dimensioni rispecchiare la vasta gamma di corpi celesti incapaci di brillare di luce propria assimilabili ai pianeti “terrestri” come la Terra e Marte, o ai pianeti gassosi come “Giove” e “Saturno”. «Ora possiamo dire con certezza che l'universo è pieno di oggetti invisibili di massa planetaria che siamo solo ora in grado di rilevare», spiega Alan Boss, della Carnegie Institution for Science, autore di The Crowded Universe. Ma se sono “invisibili” come possono essere messi in luce dagli astronomi? «Si ricorre alle stesse tecniche indirette adottate per la ricerca dei pianeti extrasolari», rivela Marchini. «In questo senso si procede tramite il metodo spettroscopico e il metodo fotometrico, o con la combinazione dei due». Il primo riguarda un sistema che basa la sua azione sulla variazione delle righe spettrometriche dovute alla perturbazione gravitazionale di un pianeta: dalle oscillazioni misurate è possibile risalire alla velocità dell'orbita e, quindi, alla massa dell'oggetto spaziale. Col secondo metodo, che può associarsi al primo, si procede stimando la diminuzione di luce emanata da una stella, la prova che un corpo celeste extrasolare si interpone periodicamente fra noi e l'astro in esame. Per ciò che riguarda i pianeti nomadi, nel dettaglio, è stata utilizzata la tecnica del microlensing gravitazionale: «È un procedimento che risale al 2000, quando degli astronomi polacchi scoprirono che, dalle osservazioni condotte con il Very Large Telescope dell’ESO, una stella posta per un effetto di prospettiva in vicinanza del centro di M22 (ammasso globulare nella costellazione del Sagittario) manifestava un inatteso aumento di luminosità di venti giorni», dicono gli studiosi dell'INAF. «Si sospetta che il responsabile di questo comportamento sia il cosiddetto microlensing gravitazionale, fenomeno dovuto alla curvatura dei raggi di luce che si propaga in prossimità di grandi concentrazioni di massa». Ma le scoperte relative ai pianeti nomadi sono solo all'inizio. Si può, infatti, prospettare che fra poco tempo disporremo di strumenti ancora più potenti che potranno davvero fare luce su queste incredibili realtà. Un buon censimento potrà essere fornito per la prima volta dalla prossima generazione di telescopi, rappresentata dal Wide-Field Infrared Survey Telescope e dal Large Synoptic Survey Telescope, entrambi pronti a entrare in azione nel 2020. 

(Pubblicato sulla rivista Newton)

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