lunedì 16 gennaio 2017

La storia degli indiani


Cristoforo Colombo scoprì l'America ma non ebbe mai la percezione di avere individuato un nuovo continente. La ebbe Amerigo Vespucci, che, dopo varie ricognizioni al di là dell'Atlantico, per primo coniò l'espressione "Mondus Novus". E' a questo punto che qualcuno cominciò a chiedersi: come fanno a esserci qui degli uomini, se siamo noi i primi a metterci piede? Fu l'inizio del riepilogo della storia della nostra specie, iniziata centotrentamila anni fa in Africa. Solo oggi, però, possiamo sistematicamente rispondere alla domanda che si erano posti i primi esploratori del Nuovo Mondo: l'America fu abitata per la prima volta dall'uomo sedicimila anni fa. E' il resoconto di uno studio effettuato in Virginia, negli Usa. Dove alcuni archeologi hanno recuperato manufatti risalenti alla fine del Pleistocene, assimilabili all'industria del Magdaleniano; la cultura che dominò l'Europa fra 18mila e 10mila anni fa. Sono tempi di grandi trasformazioni, che portano l'uomo ad assistere alla fine dell'ultima grande glaciazione, la Wurm, e all'inizio di un periodo caldo che prosegue ancora oggi; e che ha consentito lo sviluppo dell'agricoltura e dell'allevamento.

Il termine si rifà a una località francese, Abri de la Madeleine, in Dordogna, dove sono state ritrovate molte tracce dell'uomo preistorico: arpioni, punte di lance, propulsori, bastoni lavorati, e grotte finemente decorate. Ebbene, i resti del primo uomo che mise piede in America sono simili a questi ritrovamenti; benché Dennis Stanford della National Museum of Natural History dello Smithsonian Institution continui a parlare di "convergenze evolutive" e non di vere e proprie "connessioni". Con ciò gli scienziati ritengono che la nostra specie abbia conquistato l'America tre o quattromila anni prima di quanto ritenuto fino a oggi, facendo tesoro delle esperienze vissute in Eurasia da antichi progenitori. Contemporaneamente sono emerse analogie per ciò che riguarda il corredo genetico dei paleoamericani e i discendenti dell'Homo di Cro-Magnon, arrivato in Europa 40mila anni fa; e portatore di un particolare marcatore genetico, l'M173. Le analisi sono avvenute sui resti ossei di un siberiano vissuto 24mila anni fa; che hanno evidenziato i suoi legami con gli euroasiatici occidentali (Europa e Medio oriente) e gli indiani d'America. Significa che i vari Sioux, Cheyenne, Navaho, non sono figli esclusivi di antichi popoli dell'Asia orientale, ma anche d'individui imparentati con i nostri avi. Da dove arrivavano?

Ci fu un tempo una terra chiamata Beringia, situata fra l'Alaska e la Siberia, ricoperta da muschi e piccoli arbusti. Un istmo, ampio qualche decina di chilometri, che emergeva periodicamente durante le fasi glaciali. Rimaneva scoperto, perché un vento tiepido spirava costantemente da sud, impendendo ai ghiacci di avere il sopravvento. La conferma di questa intima relazione fra le estremità americane e quelle asiatiche è indicata dalla presenza di fossili animali, quasi identici su entrambi i fronti. Qui viveva una popolazione che bruciava le sterpaglie per ravvivare il fuoco; e che si nutriva di erbe e piccoli mammiferi. Le cose cambiarono con la fine della glaciazione wurmiana. Molte specie animali si estinsero e i progenitori dei paleoindiani non trovarono più cibo. Fu la molla che li indusse a guardare verso est, verso l'America. 

Dalla Beringia si insediarono lungo il corso dello Yukon, immenso fiume che separa la Columbia Britannica dal Mare di Bering. Caleb Vance Haynes, archeologo dell'University of Arizona (ancora attivo nonostante l'età, è del 1928), ha per primo tracciato il cammino dei paleoamericani, arrivando a ipotizzare che, lo scioglimento dei ghiacci del Nord America, avvenne in punti precisi; consentendo all'uomo di seguire un lungo corridoio privo di impedimenti verso sud. Dal corso dello Yukon finirono per fiancheggiare quello del Meckenzie, per poi raggiungere i confini dell'attuale Pennsylvania. La parte nord era ancora coperta dai ghiacci, ma quella a sud, rappresentò il posto ideale dove prosperare; c'erano distese erbose e foreste e soprattutto moltissimi animali da cacciare: alci, caribù, mammut e mastodonti. Qui sorse quella che gli scienziati indicano come cultura pre-Clovis, che precedette la Clovis, ufficialmente ritenuta la prima "industria" dei paleoamericani.

Siti riconducibili a questa epoca sono stati individuati a Meadowcroft Rockshelter, in Pennsylvania; a Cactus Hill, in Virginia; e a Topper, in Carolina del Sud. Così i paleoindiani conquistarono tutta l'America del nord e subito dopo quella centrale e meridionale. La cultura Clovis fiorì 13mila anni fa. Gli archeologi la differenziano dalle altre, per via dei ritrovamenti avvenuti negli anni Trenta nella località omonima in New Messico. Il riferimento è soprattutto a punte di lancia rastremate, ricavate dalla lavorazione bifacciale di rocce particolari. Assimilabili, non a caso, a quelle del Magdaleniano europeo.


La fine della cultura di Clovis
A un certo punto della cultura di Clovis non si è più saputo nulla. Il motivo? Per alcuni scienziati fu la conseguenza di un impatto meteorico nel Nord America, simile a quello avvenuto nel 1908 in Siberia, a Tunguska. Il fenomeno avrebbe alterato il clima causando una diminuzione drastica della popolazione umana. Avrebbero patito lo stesso destino, i grandi animali del continente americano, la cosiddetta megafauna: orsi, cammelli, mammut. Vari studi propendono per questa teoria rifacendosi al Dryas recente, periodo di freddo compreso fra 12.800 e 11.500 anni fa, con una temperatura media globale più bassa della norma di cinque gradi. Ma sono altrettante le tesi contrarie. L'ultima arriva dalla Royal Holloway University, in Inghilterra, secondo la quale non esistono crateri che possano attestare un impatto con un corpo extraterrestre; inoltre non c'è sincronia fra la sparizione delle varie specie che prosperarono nel Pleistocene.

I nativi americani
Dopo avere conquistato il Nord America, l'uomo si è spostato sempre più a sud, alla ricerca di un clima più mite, e di migliori fonti alimentari. Nella zona artica rimasero gli antenati degli attuali inuit e yupik, noti come eschimesi. In Oregon e nel Montana abitarono tribù pacifiche come i Nasi Forati e i Palouse. In California, i Pomo e i Maidu, dediti alla caccia e alla raccolta. Nelle grandi pianure, cuore degli attuali Stati Uniti, vissero le tribù più note all'immaginario collettivo come i Comanche, i Sioux, i Cheyenne e gli Arapaho. In centro America, invece, si svilupparono vere e proprie civiltà. In Messico fiorirono i maya, gli olmechi e gli aztechi. La convivenza con gli europei arrivati dopo Colombo fu tutt'altro che pacifica. Si stima che in cinquecento anni, fra guerre e malattie, perirono milioni di nativi americani.

Gli indigeni di oggi
Figli dei primi americani sono anche tribù che non hanno mai avuto contatto con l'uomo moderno. E' il caso di alcuni indios fotografati per la prima volta nel 2011, al confine fra Brasile e Perù. Gli uomini sorpresi dall'elicottero hanno volto al cielo le loro frecce in difesa del proprio territorio. José Carlos Meirelles, esperto di problemi indigeni e a capo della missione organizzata da Survival International, parla di un'area ricca di legname, petrolio e minerali. In Brasile sopravvivono 240 tribù per un totale di un milione di persone che vivono di pesca, raccolta e caccia. Molte quelle a rischio di estinzione. Gli akuntsu sono rimasti in cinque e gli awa arrivano a quattrocento unità. L'etnia più folta è quella dei tikuna, con 40mila rappresentanti distribuiti fra Brasile, Colombia e Perù.

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